30 gennaio 2006
Crêpe Suzette
Questa è la ricetta originale per le crêpe Suzette che usiamo al Café de Paris di Montecarlo, nata da un fortunato incidente accaduto al cameriere Henri Charpentier.
Era il 1896: Henri aveva quattordici anni. Secondo Ie sue memorie, stava impilando su un vassoio posto su uno scaldavivande le crêpe per il dessert del principe di GalIes e futuro re Edoardo VII. Preso dal panico versò parte dell'alcol del fornelletto nel piatto e questo prese fuoco. Henri decise di tentare Ia sorte sapendo che, se non avesse servito subito iI principe, sarebbe stato rovinato. Così assaggiò quel che era rimasto. Pensò subito - e cito proprio le sue parole - che "fosse Ia più deliziosa melodia di dolcezze che avesse mai assaporato: la fiamma aveva portato insieme i vari strumenti in un'armonia di aromi".
II principe mangiò le crêpe con la forchetta e usò addirittura un cucchiaio per finire lo sciroppo, poi chiese il nome di quel che aveva gustato con tanta soddisfazione. Henri rispose pronto che quelle erano "crêpe princesse", in onore del prestigioso ospite. II principe osservò che al tavolo c'era una signora (un'amica "temporanea", si suppone) e chiese al giovane cameriere se fosse disposto a cambiarne il nome in "crêpe Suzette, in omaggio alla bellezza di quella donna". Così fu tenuto a battesimo il celebre dessert, che fruttò a Henri Charpentier l'immortalità culinaria. Più un anello, un panama e un bastone da passeggio, che ii futuro re d'Inghilterra gli mandò in regalo il giorno dopo.
Per preparare Ia pastella, dunque, comincio mescolando Ia farina setacciata con le uova; uso una frusta, ma con delicatezza, per non gonfiare iI composto. Aggiungo man mano il latte freddo, poi il sale, lo zucchero e infine ii burro sciolto e imbiondito (color nocciola) in una padellina. Il segreto della crêpe perfetta sta neI far riposare il composto almeno un'ora prima di usarlo. Cuocio le crêpe una alla volta in una padella di rame appena unta di burro, stendendo bene la pastella in modo che risultino il più sottili possibile. Quando le ho preparate tutte passo alla salsa: faccio fondere il burro a fiamma abbastanza vivace e ci sciolgo dentro lo zucchero, che però non deve ancora caramellare.
Verso il succo di arancia (facendo attenzione agli schizzi) e sempre mescolando lascio ridurre lo sciroppo per qualche minuto. A questo punto immergo le crêpe una a una nella salsa all'arancia rigirandole in modo che rimangano velate su entrambi i lati, le piego in quattro e accantono i triangoli così ottenuti su un lato della padella. Verso il liquore, riporto le crêpe al centro della padella, Ie rigiro ancora una volta e, infine, do fuoco alla preparazione muovendo avanti e indietro la padella in modo che il tutto si caramelli in modo uniforme. E servo subito su piatti caldi.
Ingredienti per le crêpe:
300 millilitri di latte
15 grammi di zucchero
60 grammi di burro
3 grammi di sale fino
120 grammi di farina
90 grammi di uova
Ingredienti per la salsa:
4 cucchiai di zucchero
600 grammi di burro
4 arance spremute al momento
60 millilitri di Grand Marnier
fonte/autore: Jacques Lambert, Ventiquattro - il magazine de Il Sole 24 ORE del 07-01-2006
Era il 1896: Henri aveva quattordici anni. Secondo Ie sue memorie, stava impilando su un vassoio posto su uno scaldavivande le crêpe per il dessert del principe di GalIes e futuro re Edoardo VII. Preso dal panico versò parte dell'alcol del fornelletto nel piatto e questo prese fuoco. Henri decise di tentare Ia sorte sapendo che, se non avesse servito subito iI principe, sarebbe stato rovinato. Così assaggiò quel che era rimasto. Pensò subito - e cito proprio le sue parole - che "fosse Ia più deliziosa melodia di dolcezze che avesse mai assaporato: la fiamma aveva portato insieme i vari strumenti in un'armonia di aromi".
II principe mangiò le crêpe con la forchetta e usò addirittura un cucchiaio per finire lo sciroppo, poi chiese il nome di quel che aveva gustato con tanta soddisfazione. Henri rispose pronto che quelle erano "crêpe princesse", in onore del prestigioso ospite. II principe osservò che al tavolo c'era una signora (un'amica "temporanea", si suppone) e chiese al giovane cameriere se fosse disposto a cambiarne il nome in "crêpe Suzette, in omaggio alla bellezza di quella donna". Così fu tenuto a battesimo il celebre dessert, che fruttò a Henri Charpentier l'immortalità culinaria. Più un anello, un panama e un bastone da passeggio, che ii futuro re d'Inghilterra gli mandò in regalo il giorno dopo.
Per preparare Ia pastella, dunque, comincio mescolando Ia farina setacciata con le uova; uso una frusta, ma con delicatezza, per non gonfiare iI composto. Aggiungo man mano il latte freddo, poi il sale, lo zucchero e infine ii burro sciolto e imbiondito (color nocciola) in una padellina. Il segreto della crêpe perfetta sta neI far riposare il composto almeno un'ora prima di usarlo. Cuocio le crêpe una alla volta in una padella di rame appena unta di burro, stendendo bene la pastella in modo che risultino il più sottili possibile. Quando le ho preparate tutte passo alla salsa: faccio fondere il burro a fiamma abbastanza vivace e ci sciolgo dentro lo zucchero, che però non deve ancora caramellare.
Verso il succo di arancia (facendo attenzione agli schizzi) e sempre mescolando lascio ridurre lo sciroppo per qualche minuto. A questo punto immergo le crêpe una a una nella salsa all'arancia rigirandole in modo che rimangano velate su entrambi i lati, le piego in quattro e accantono i triangoli così ottenuti su un lato della padella. Verso il liquore, riporto le crêpe al centro della padella, Ie rigiro ancora una volta e, infine, do fuoco alla preparazione muovendo avanti e indietro la padella in modo che il tutto si caramelli in modo uniforme. E servo subito su piatti caldi.
Ingredienti per le crêpe:
300 millilitri di latte
15 grammi di zucchero
60 grammi di burro
3 grammi di sale fino
120 grammi di farina
90 grammi di uova
Ingredienti per la salsa:
4 cucchiai di zucchero
600 grammi di burro
4 arance spremute al momento
60 millilitri di Grand Marnier
fonte/autore: Jacques Lambert, Ventiquattro - il magazine de Il Sole 24 ORE del 07-01-2006
29 gennaio 2006
la forza del destino
La sensazione che ogni percorso, scelto anche per caso, sia fondamentale per lo svolgersi del proprio destino, trova conferma ogni giorno.
Questa mattina, ad esempio, stavo avviandomi al bar per la colazione, quando, apparentemente senza ragione, ho deciso di andare in direzione opposta. "Prima della colazione voglio far riparare la scarpa, altrimenti rischio di perderla, e poi se per caso piove...". Allora sono entrato per la prima volta nella bottega di Ernesto, il vecchio calzolaio del quartiere. È sicuramente la bottega più piccola del mondo. Contiene a malapena un tavolino colmo di chiodi, lacche e residui di cuoio. Ernesto, seduto con le spalle alla parete di fondo, ogni tanto, lavorando, getta un'occhiata alla strada. Mi ha fatto accomodare e rapidamente ha tracciato una diagnosi della mia scarpa. "Stai perdendo il tacco. Una decina di minuti e puoi tornare a passeggiare". Sulla parete di destra una grande fotografia con due bambini identici che si tengono per mano.
"Quello sono io con mio fratello". Dice Ernesto, vedendomi fissare il quadro. "Gemelli?". "Eravamo talmente identici che spesso ci divertivamo a sostituirci, sia con gli amici che con le ragazze, anche se io ero più vecchio di un anno". "Come è possibile?". "Io sono nato pochi minuti prima di mezzanotte dell'ultimo dell'anno, mio fratello una decina di minuti dopo la mezzanotte, quindi anagraficamente un anno dopo. Poi nel '44 mi hanno arrestato perchè avevo comprato qualche chilo di pasta a borsa nera e m'hanno chiuso a Regina Coeli. Un giorno m'è venuto a trovare e ha voluto a tutti i costi che indossassi i suoi vestiti. Voleva farmi uscire almeno un pò per salutare i miei. Le guardie non potevano certo capire quello che stava succedendo, visto che eravamo identici. Sono uscito indisturbato di prigione. Per oltre un mese ci siamo divisi il carcere, tre giorni io, tre giorni lui, in attesa che facessero il processo. Poi è successa la tragedia delle Fosse Ardeatine ed è capitato che in quei tre giorni ci fosse lui in cella. I tedeschi hanno ucciso 320 persone, dieci italiani per ogni militare tedesco morto nell'attentato di via Rasella. Non avevano abbastanza prigionieri politici da uccidere e così hanno preso anche alcuni carcerati comuni. Mio fratello l'hanno fucilato insieme agli altri trecento e passa". Ernesto si passa il palmo della mano sugli occhi, per poter finire di riparare il mio tacco.
fonte/autore: Silvano Agosti, L'Unità del 07-01-2006
Questa mattina, ad esempio, stavo avviandomi al bar per la colazione, quando, apparentemente senza ragione, ho deciso di andare in direzione opposta. "Prima della colazione voglio far riparare la scarpa, altrimenti rischio di perderla, e poi se per caso piove...". Allora sono entrato per la prima volta nella bottega di Ernesto, il vecchio calzolaio del quartiere. È sicuramente la bottega più piccola del mondo. Contiene a malapena un tavolino colmo di chiodi, lacche e residui di cuoio. Ernesto, seduto con le spalle alla parete di fondo, ogni tanto, lavorando, getta un'occhiata alla strada. Mi ha fatto accomodare e rapidamente ha tracciato una diagnosi della mia scarpa. "Stai perdendo il tacco. Una decina di minuti e puoi tornare a passeggiare". Sulla parete di destra una grande fotografia con due bambini identici che si tengono per mano.
"Quello sono io con mio fratello". Dice Ernesto, vedendomi fissare il quadro. "Gemelli?". "Eravamo talmente identici che spesso ci divertivamo a sostituirci, sia con gli amici che con le ragazze, anche se io ero più vecchio di un anno". "Come è possibile?". "Io sono nato pochi minuti prima di mezzanotte dell'ultimo dell'anno, mio fratello una decina di minuti dopo la mezzanotte, quindi anagraficamente un anno dopo. Poi nel '44 mi hanno arrestato perchè avevo comprato qualche chilo di pasta a borsa nera e m'hanno chiuso a Regina Coeli. Un giorno m'è venuto a trovare e ha voluto a tutti i costi che indossassi i suoi vestiti. Voleva farmi uscire almeno un pò per salutare i miei. Le guardie non potevano certo capire quello che stava succedendo, visto che eravamo identici. Sono uscito indisturbato di prigione. Per oltre un mese ci siamo divisi il carcere, tre giorni io, tre giorni lui, in attesa che facessero il processo. Poi è successa la tragedia delle Fosse Ardeatine ed è capitato che in quei tre giorni ci fosse lui in cella. I tedeschi hanno ucciso 320 persone, dieci italiani per ogni militare tedesco morto nell'attentato di via Rasella. Non avevano abbastanza prigionieri politici da uccidere e così hanno preso anche alcuni carcerati comuni. Mio fratello l'hanno fucilato insieme agli altri trecento e passa". Ernesto si passa il palmo della mano sugli occhi, per poter finire di riparare il mio tacco.
fonte/autore: Silvano Agosti, L'Unità del 07-01-2006
25 gennaio 2006
guerrieri della luce
Procediamo corazzati e barricati nei nostri gusci protettivi. Le paure ci impediscono incontri. Restiamo protetti, scoraggiamo confronti. Eppure l’unica certezza, la cosa che di noi rimane è l’impronta profonda lasciata dai nostri passi.Ci portiamo addosso un’armatura pesante, mascheriamo il desiderio di vedere oltre. Vorremmo scorgere attraverso la fessura dell’elmo una luce che non riusciamo a trovare.A passi lenti uno dopo l’altro tracciamo percorsi, combattiamo i nemici e a volte stranamente anche gli amici:il coraggio di spogliarci ci manca,restare nudi ci spaventa. La vergogna delle nostre pene inibisce voli, impedisce di provocare speranza. Tuttavia solo le proprie pene messe in comune potrebbero riaccendere luce.
fonte/autore: Gennaro Matino, In cerca della speranza perduta
fonte/autore: Gennaro Matino, In cerca della speranza perduta
Etichette: rapporti
sometimes...
tempi morti
Chi controlla il passato, controlla il futuro. Chi controlla il presente, controlla il passato.
fonte/autore: George Orwell, 1984
fonte/autore: George Orwell, 1984
Etichette: libri
schiavi
"...restiamo alla flessibilità, venduta come lasciapassare per l'ingresso nel mondo del lavoro ma che in realtà fa sistema e modello a sé. Per chi volesse farsi un'idea di quanto si sia ormai lontani dallo spirito della Costituzione e dello Statuto dei lavoratori, ecco Call center, sottotitolo: Gli schiavi elettronici della New economy (Fratelli Frilli, 10) di Claudio Cugusi. Vengono descritte strutture, rapporti di forza (e spesso di debolezza) e frustrazioni di quelle persone di cui noi conosciamo soltanto la voce quando ci rivolgiamo a un numero verde di assistenza per i clienti. Il concetto di alienazione in confronto a quello che provano questi newcomers del mondo del lavoro è una vacanza. Nell'elenco dei contratti che regolano il settore (ne sono previsti di ogni tipo tranne il più semplice, quello a tempo indeterminato) compare a un certo punto un comma: "Gravidanza, malattia e infortunio sono causa di sospensione del rapporto". Al legislatore non è tremata la mano mentre firmava questa cosa."
fonte/autore: Cinica e furbetta ma in frantumi povera Italia rimasta senza fiato
Claudio Cugusi - Call center. Gli schiavi elettronici della new economy
fonte/autore: Cinica e furbetta ma in frantumi povera Italia rimasta senza fiato
Claudio Cugusi - Call center. Gli schiavi elettronici della new economy
Etichette: economia, italia, libri
e mentre mi concentravo sul male...
probabilmente il bene, il meglio, il bello mi passavano a fianco e io non me ne accorgevo.
Ero troppo concentrato sul peggio, sul male, sul brutto.
fonte/autore: Fabio Volo, È una vita che ti aspetto
Ero troppo concentrato sul peggio, sul male, sul brutto.
fonte/autore: Fabio Volo, È una vita che ti aspetto
Etichette: libri
ho ucciso Cupido per legittima difesa
il paese del pressappoco
Abitudini insopportabili: numeri dati a casaccio, abuso di parole straniere
Non dico il nome perchè l'autore mi è simpatico e poi perchè mi interessa l'atto più del perpetratore. Parlo di un giovane scrittore di talento che in una breve intervista radiofonica ha pronunciato una ventina di volte la frase "in qualche modo". Locuzione che si è diffusa come la spagnola nel discorso pubblico italiano, tanto da far sospettare che venga sospinta da una forza antropologica latente.
Prendo le mosse da uno scrittore proprio per esemplificare con qualcuno che ha una buona padronanza del linguaggio e anche per avanzare intanto l'ipotesi che "in qualche modo" sia una interiezione dei settori più colti del discorso pubblico. Una riprova della sua origine profonda e, oserei dire, subconscia e che si tratta di un modo di dire esclusivo della lingua parlata. Scappa dalla bocca ma, nero su bianco, palesa la sua inconsistenza e poi, vista la frequenza con cui viene usato, sarebbe comunque spietatamente cassato dai correttori di stile di qualsiasi word processor.
Non mi pare però una interiezione di sinistra, anche se se ne può cogliere una versione leftish che suona più o meno cosi: "In qualche modo, no?". E forse è una lontana parente del vecchio "nella misura in cui" della marxologia assembleare. Essendo interiezione colta non è neppure come "valido", "paventare", "piuttosto che", per non parlare degli orrendi vision, mission, target, welfare, devolution, question day, concept, oppure "acellerare" o "efferrato", tutte affettazioni tipiche del linguaggio politico e pubblicitario low brow.
No: qui abbiamo a che fare con qualcosa di più profondo, un certain état de l'âme collective, che esprime un'incertezza radicata nello spirito del tempo di questi anni, sospesi tra una modernizzazione strombazzata e la restaurazione praticata. Per capire in qual modo il "qualche modo" si sia insinuato nel nostro linguaggio dobbiamo scavare ancora.
In parte, almeno, mi sembra una cautela preventiva che rappresenta una difesa contro le aggressioni statistiche. Siamo capitati in un mondo in cui si puo senza smentita scrivere di un ministro (di nuovo non importa quale) che "sostiene che gli elefanti volano e ogni tanto snocciola qualche dato sulla velocity di decollo" e in cui è diventata pratica comune buttare lì qualche numero, tanto per dare l'idea di essere bene informati.
È rimasta famosa la battuta di Gianni Agnelli che, al giornalista che chiedeva come andasse la Fiat, rispondeva con la abituale nonchalance: "Fuardi, siamo al 40 per cento". Quaranta per cento di che cosa non si sapeva, ma intanto faceva una buona impressione. Quando un ministro dice che nel suo dicastero i fondi sono aumentati del 13%, senza dire in che periodo e senza che poi la cifra abbia senso alcuno rispetto alla realtà, l'interlocutore ha solo due possibilità. O spara un'altra cifra, ma poi tutto va a finire che chi segue perde il filo, perchè queste dispute statistiche sono usuali e ormai nessuno crede più a numeri maneggiati in modo tanto approssimativo. Oppure si difende ampliando I'approssimazione.
"In qualche modo" non puo essere attaccato con le cifre e diventa così il calcio in corner del discorso. In tal modo in qualche modo ti salva sempre, preventivamente. È un poco come il presunto che viene ormai preposto ad abundantiam a qualsiasi considerazione anche fattuale. Tutti sanno che si deve sempre dire il "presunto omicida", anche se I'immagine mostra Maramaldo che ficca la daga nella giugulare di Francesco Ferrucci. Così per abitudine si mette "presunto" da tutte le parti, non si sa mai. Ho sentito dire "la presunta bomba nella metropolitana" quando ormai era chiaro da ore che non era scoppiato il boiler del gabinetto della stazione. Oppure la "presunta quattordicenne stuprata", non si sa mai che salti poi fuori che si trattava di una professionista trentenne al lavoro. In qualche modo cerco di difendermi.
Ma perchè occorre difendersi? Perchè i modi sono diventati molti e non c'è mai quello giusto. Parlo con un amico architetto che lavora anche in altri Paesi dove il "qualche modo" non esiste perche c'è un modo solo per fare le cose, quello giusto. Gli altri sono sbagliati. Nel nostro Paese il modo giusto non c'è mai, nessuno to lo può garantire. Esiste la firma, certo, ci sono milioni di firme con le quali si cerca nel modo peggiore di rimediare a un'incertezza strutturale.
E così mentre nei Paesi in cui il vivere civile è regolato da pratiche che facilitano la vita e c'è un modo solo per fare la coda, mettersi in asse con la nuca di chi ci precede, da noi quella è l'unica posizione che viene evitata accuratamente perchè non si sa mai, si può scivolare in avanti. Sulle autostrade meglio stare a cavallo delle righe invece che nel centro della corsia. Non si sa mai: come deduciamo dalle affermazioni dei protagonisti dell'ultimo giro di mariolerie, mai fidarsi. Siamo diventati un "Paese in qualche modo". Però chi deve investire da noi o su di noi vuole un solo modo: quello giusto.
fonte/autore: Guido Martinotti, Il Sole 24 ORE del 27-12-2005
Non dico il nome perchè l'autore mi è simpatico e poi perchè mi interessa l'atto più del perpetratore. Parlo di un giovane scrittore di talento che in una breve intervista radiofonica ha pronunciato una ventina di volte la frase "in qualche modo". Locuzione che si è diffusa come la spagnola nel discorso pubblico italiano, tanto da far sospettare che venga sospinta da una forza antropologica latente.
Prendo le mosse da uno scrittore proprio per esemplificare con qualcuno che ha una buona padronanza del linguaggio e anche per avanzare intanto l'ipotesi che "in qualche modo" sia una interiezione dei settori più colti del discorso pubblico. Una riprova della sua origine profonda e, oserei dire, subconscia e che si tratta di un modo di dire esclusivo della lingua parlata. Scappa dalla bocca ma, nero su bianco, palesa la sua inconsistenza e poi, vista la frequenza con cui viene usato, sarebbe comunque spietatamente cassato dai correttori di stile di qualsiasi word processor.
Non mi pare però una interiezione di sinistra, anche se se ne può cogliere una versione leftish che suona più o meno cosi: "In qualche modo, no?". E forse è una lontana parente del vecchio "nella misura in cui" della marxologia assembleare. Essendo interiezione colta non è neppure come "valido", "paventare", "piuttosto che", per non parlare degli orrendi vision, mission, target, welfare, devolution, question day, concept, oppure "acellerare" o "efferrato", tutte affettazioni tipiche del linguaggio politico e pubblicitario low brow.
No: qui abbiamo a che fare con qualcosa di più profondo, un certain état de l'âme collective, che esprime un'incertezza radicata nello spirito del tempo di questi anni, sospesi tra una modernizzazione strombazzata e la restaurazione praticata. Per capire in qual modo il "qualche modo" si sia insinuato nel nostro linguaggio dobbiamo scavare ancora.
In parte, almeno, mi sembra una cautela preventiva che rappresenta una difesa contro le aggressioni statistiche. Siamo capitati in un mondo in cui si puo senza smentita scrivere di un ministro (di nuovo non importa quale) che "sostiene che gli elefanti volano e ogni tanto snocciola qualche dato sulla velocity di decollo" e in cui è diventata pratica comune buttare lì qualche numero, tanto per dare l'idea di essere bene informati.
È rimasta famosa la battuta di Gianni Agnelli che, al giornalista che chiedeva come andasse la Fiat, rispondeva con la abituale nonchalance: "Fuardi, siamo al 40 per cento". Quaranta per cento di che cosa non si sapeva, ma intanto faceva una buona impressione. Quando un ministro dice che nel suo dicastero i fondi sono aumentati del 13%, senza dire in che periodo e senza che poi la cifra abbia senso alcuno rispetto alla realtà, l'interlocutore ha solo due possibilità. O spara un'altra cifra, ma poi tutto va a finire che chi segue perde il filo, perchè queste dispute statistiche sono usuali e ormai nessuno crede più a numeri maneggiati in modo tanto approssimativo. Oppure si difende ampliando I'approssimazione.
"In qualche modo" non puo essere attaccato con le cifre e diventa così il calcio in corner del discorso. In tal modo in qualche modo ti salva sempre, preventivamente. È un poco come il presunto che viene ormai preposto ad abundantiam a qualsiasi considerazione anche fattuale. Tutti sanno che si deve sempre dire il "presunto omicida", anche se I'immagine mostra Maramaldo che ficca la daga nella giugulare di Francesco Ferrucci. Così per abitudine si mette "presunto" da tutte le parti, non si sa mai. Ho sentito dire "la presunta bomba nella metropolitana" quando ormai era chiaro da ore che non era scoppiato il boiler del gabinetto della stazione. Oppure la "presunta quattordicenne stuprata", non si sa mai che salti poi fuori che si trattava di una professionista trentenne al lavoro. In qualche modo cerco di difendermi.
Ma perchè occorre difendersi? Perchè i modi sono diventati molti e non c'è mai quello giusto. Parlo con un amico architetto che lavora anche in altri Paesi dove il "qualche modo" non esiste perche c'è un modo solo per fare le cose, quello giusto. Gli altri sono sbagliati. Nel nostro Paese il modo giusto non c'è mai, nessuno to lo può garantire. Esiste la firma, certo, ci sono milioni di firme con le quali si cerca nel modo peggiore di rimediare a un'incertezza strutturale.
E così mentre nei Paesi in cui il vivere civile è regolato da pratiche che facilitano la vita e c'è un modo solo per fare la coda, mettersi in asse con la nuca di chi ci precede, da noi quella è l'unica posizione che viene evitata accuratamente perchè non si sa mai, si può scivolare in avanti. Sulle autostrade meglio stare a cavallo delle righe invece che nel centro della corsia. Non si sa mai: come deduciamo dalle affermazioni dei protagonisti dell'ultimo giro di mariolerie, mai fidarsi. Siamo diventati un "Paese in qualche modo". Però chi deve investire da noi o su di noi vuole un solo modo: quello giusto.
fonte/autore: Guido Martinotti, Il Sole 24 ORE del 27-12-2005
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